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a cura di Abert Fabrizio
DOVE NON HO MAI  ABITATO                   Italia 2017
Regia: Paolo Franchi          Sceneggiatura: Rinaldo Rocco, Paolo Franchi      Fotografia: Paolo Gianchetti Musiche: Pino Donaggio        Interpreti: Emmanuelle  Devos, Fabrizio Gifuni, Giulio Brogi, Hippolyte Girardot, , Isabella Briganti, Giulia Michelini
Una storia borghese di altri  tempi, reminiscenze di Antonioni e Visconti, un ambiente altolocato e rarefatto che probabilmente il regista conosce bene. In fondo è un melò, il graduale avvicinamento di due personaggi a loro modo frenati dall’ambiente, dalle circostanze, dal carattere, che gradualmente si avvicinano, si riconoscono, si lasciano andare ad una passione incontenibile, ma  subito rientrano nei loro ranghi, incapaci di viverla fino in fondo. Emmanuelle Devos è la figlia di un noto architetto  torinese, brillante professionista, un po’ egocentrico e dispotico, ormai anziano, che viene affiancato nel suo lavoro  dall’allievo prediletto, Massimo (Fabrizio Gifuni), quasi un figlio, che lo aiuta con devozione ed è pronto a raccoglierne il testimone. Anche Francesca, la figlia, è  architetta, ma, rimasta orfana della madre, artista brillante, e forse per staccarsi dal padre e dalla ingombrante famiglia, non ha mai esercitato, si è trasferita a Parigi e ha sposato un ricco finanziere, saggio e riflessivo, che le ha garantito una  vita più che agiata, con una figlia borghesuccia e viziata. L’anziano architetto, Giulio Brogi, non ha mai digerito le scelte rinunciatarie della figlia, l’abbandono della professione, non ha mai amato il genero che, secondo lui “ vale molto meno di lei “. In una delle  rare visite di lei a Torino (peraltro splendidamente fotografata da Paolo Gianchetti), dove si svolge la vicenda, il padre coglie l’occasione per coinvolgerla nella progettazione di una villa sulle colline, affiancandola a Massimo, sperando così di suscitare il suo interesse e la ripresa dell’attività professionale. L’incontro tra i due è abbastanza algido, Massimo è molto motivato, rampante, assai poco comunicativo, tutto preso dal  lavoro, incapace di vivere una vita affettiva piena, costruisce case per gli altri, ma la sua è ancora piena di cartoni e imballaggi. La sua relazione con la fidanzata sembra superficiale, anaffettiva. L’avvicinamento tra i due è molto graduale, sospettoso, ma alla fine riconosceranno una grande sintonia di pensiero, si  insinuerà una comprensione non solo intellettuale e professionale, ma anche affettiva profonda, fino ad una incontenibile passione ignota ad entrambi, assai destabilizzante, che li porterà ad affrontare una situazione mai vissuta prima, vera ed estremamente coinvolgente, fino a mettere in discussione i presupposti delle loro scelte di vita. L’improvvisa morte dell’anziano architetto però riporterà bruscamente le  cose al punto di partenza;  ognuno rientrerà nel suo ruolo, Francesca tornerà dal marito a Parigi, Massimo alla professione e alla fidanzata, profondamente scossi ma incapaci di vivere la passione fino in fondo e paurosi di destabilizzare le loro certezze. Ben recitato, con un gioco di sguardi, di volti, di mani, molto ben fotografato,  con una serie di splendide case, bei vestiti, tutto molto chic, un po’ intellettuale e forse poco coinvolgente. Mi resta il desiderio di andare a vedere quella splendida villa con piscina sulle colline di Torino, con tante vetrate luminose e una camera sopraelevata che guarda il cielo.
VICTORIA E ABDUL                                        USA,Gran Bretagna 2017
Regia: Stephen Frears       Sceneggiatura: Lee Hall    Fotografia: Danny Cohen     Musiche: Thomas Newman Interpreti:  Judy Dench, Ali Fazal, Eddie Izzard, Michael Gambon, Olivia Williams, Tim Pigott-Smith
Un film leggero, spensierato, piacevole, a patto di non prenderlo troppo sul serio! Presentato fuori concorso al festival di Venezia di quest’anno, racconta la storia (in parte vera, in parte romanzata)  dello strano rapporto tra l’anziana regina Vittoria e un bel giovanotto  indiano, fortunosamente catapultato dall’India in Gran Bretagna per omaggiarla e diventato in breve una specie di segretario personale, consigliere, insegnante (…amante?). E’ tratto da un libro della scrittrice e giornalista indiana Shrabani  Basu che, colpita dall’avere visto un ritratto di Abdul nello spogliatoio privato della regina, ha voluto approfondire la relazione, trovando spunti e documenti che nessuno conosceva, in particolare il diario di  Abdul. Che la regina Vittoria, rimasta vedova dell’adorato Bertie, si sia poi consolata con  vari amanti, tra cui il famoso John Brown, è cosa nota. Quanto viceversa ci sia di vero in questa relazione senile (la regina aveva più di 80 anni!) è tutto da dimostrare. Resta la bella favola, la splendida recitazione di Judy Dench, della stessa età della regina nella storia raccontata, un po’ di India, un  po’ di esotismo, un po’ di beghe di corte, molta ironia e irriverenza. Abdul è un semplice impiegato indiano che viene scelto (per la sua avvenenza? per la sua altezza? per caso?) per portare alla regina un omaggio dell’India, allora parte dell’impero britannico, per il giubileo per i 50 anni del regno. Seguiamo passo passo tutte le vicende del  giovanotto, dall’iniziale paura e  spaesamento ad una confidenza sempre maggiore, suscitando la curiosità e l’interesse della regina per un mondo a lei completamente sconosciuto, fino a diventare il “Munshi”,  il maestro spirituale. Naturalmente tutto ciò provocherà una serie di reazioni di rigetto della corte cui la sovrana si opporrà con tutte le sue forze, suscitando l’ira del figlio e futuro re, Edoardo VII che tenterà in ogni modo di far  cessare la relazione e lo scandalo. E’ interessante la spregiudicatezza della regina, la sua curiosità intellettuale, la mancanza di pregiudizi, in particolare nei confronti di un suddito di un altro mondo, di un’altra lingua, ma soprattutto di un’altra  religione (Abdul è musulmano…qualche richiamo con l’attualità?). Alla  fine naturalmente tutto rientrerà nella norma e, alla morte della regina nel 1901, Abdul e la famiglia verranno immediatamente rispediti  in India  e tutta la corrispondenza, i regali e il materiale più o meno compromettente dati alle fiamme. Delle scene sontuose, una bella ricostruzione d’epoca, dei bravi interpreti, qualche guizzo ironico, per il resto un film  abbastanza convenzionale (…è stato definito un melò per signore…), molto kitsch, di puro intrattenimento.
LIBERE, INDIPENDENTI, INNAMORATE  Israele, Francia 2016                
Regia: Maysaloun Hamoud  Sceneggiatura: Maysaloun Hamoud Fotografia: Itay Gross     Interpreti: Sana Jammelieh, Mouna Hawa, Shaden Kanboura, Mahmoud Shalabi,Riyad Sliman
Il titolo italiano, un po’ futile e leggero, da romanzo rosa, non rende per nulla l’importanza e la complessità del film. Il titolo originale, “Bar Bahr”, in arabo “Tra terra e mare”, in ebraico “Né qui né altrove”, in inglese “In between”, viceversa, sintetizza molto bene la problematica del film. Primo lungometraggio di una regista palestinese, girato in Israele anche, in parte, con sovvenzionamento statale, vincitore di molti premi e primo di una trilogia sull’emancipazione femminile, è un film molto bello a mio modo di vedere, che più di tanti discorsi  evidenzia i problemi e la complessità della situazione femminile, in particolare in medio oriente, ma non solo. Pregio del film, infatti, è quello di evidenziare come le difficoltà per l’autonomia e l’emancipazione delle donne ci siano ovunque e comunque: la situazione, infatti, è paradigmatica. Due  ragazze arabe in cerca di indipendenza dividono un appartamento a Tel-Aviv, la città più libera e aperta di Israele. Una, Leila, è avvocato penalista e svolge il suo lavoro a contatto con la giustizia israeliana, difende i palestinesi, parla indifferentemente arabo ed ebraico, si rivolge da pari a pari, in maniera molto libera, ai colleghi avvocati maschi israeliani, conduce una vita spregiudicata tra balli, feste, fumo, alcool, un po’ di droga, fidanzati che sceglie e cambia quando diventano noiosi e possessivi. E’ laica, indipendente, emancipata e abituata a pagare di persona errori e fallimenti. L’altra ragazza, Salma, che divide con lei l’appartamento, viceversa, è araba cristiana, sbarca il lunario come cameriera, vorrebbe fare il DJ, andare all’estero, scopre di essere lesbica e vorrebbe che la famiglia accettasse e condividesse il suo stato. A loro si aggiunge una terza ragazza, araba musulmana,  religiosa, giunta a Tel-Aviv dal paese per studiare, fidanzata con un uomo tradizionalista e ahimè violento che vorrebbe che lei, invece, facesse la moglie e la madre come  si conviene. Il film ci mostra la vita delle tre donne e la loro difficile convivenza, le loro esperienze e le loro difficoltà personali e pubbliche. L’avvocatessa deve difendersi dalle avances maschili spesso non volute e da un difficile ambiente lavorativo, spesso si getta anima e corpo in avventure sentimentali che alla fine si rivelano deludenti,  con personaggi che, pur sembrando evoluti, dimostrano tutta la loro appartenenza ad un  mondo maschile tradizionalista e incapace di evolversi. Salma, dopo aver trovato l’amore in una donna, cerca di condividere la sua felicità con la famiglia, ma il fatto di non essere musulmani non impedisce affatto che i genitori, e in particolare il padre, reagiscano con violenza alla scoperta, addirittura pensando di ricoverarla in manicomio  per guarirla. Noor, viceversa, donna timorata di Dio, seria e studiosa, imbarazzata e critica per il comportamento delle due coinquiline, deve fare i conti con il fidanzato sempre più aggressivo, che vuole a tutti i costi toglierla da quella situazione e, da maschio ottuso e violento, non sa fare altro che stuprarla per forzare il matrimonio e lasciarla sola e in lacrime a leccarsi  le ferite e a riflettere. E’ da questo episodio così estremo che scatta la solidarietà tra le ragazze che aiutano la  più debole ad uscirne, a ricominciare, a prendere coscienza di sé e della propria autonomia, ad affrontare il fidanzato e il padre in un drammatico confronto che, inaspettatamente, rivelerà tutta l’umanità dell’unico maschio in tutto il film che fa una bella  figura. Una volta tanto la situazione politica israelo-palestinese viene lasciata da parte per concentrarsi sui problemi individuali, in particolare delle donne, a metà tra tradizione ed emancipazione, tra famiglia e lavoro, in una società in evoluzione, con continue contraddizioni non risolte. Israeliani e palestinesi, ebrei e arabi, laici e cristiani alla fine sono tutti ugualmente coinvolti in queste difficili relazioni tra mondo maschile e femminile. Il film non prevede un lieto fine, ma le tre donne, ferite in vario modo, insieme, in silenzio, ciascuna a modo suo, non scendono a compromessi e riprendono coscienti e autonome la loro difficile strada. Un film molto bello, a mio modo di vedere, serio, problematico, cosciente, per nulla assolutorio, di grande sensibilità e partecipazione femminile: l’opera prima di una regista che merita considerazione e credito per il futuro.
L’ORDINE DELLE COSE   Italia, Francia, Tunisia  2017
Regia: Andrea Segre      Sceneggiatura: Marco Pettenello, Andrea Segre Fotografia: Valerio Azzali             Interpreti: Paolo Pierobon, Giuseppe Battiston, Valentina Carnelutti, Fausto Russo Alesi, Olivier Rabourdin, Yusra Warsanna, Fabrizio Ferracane, Roberto Citran, Hossein Taheri
Un film importante, anche se personalmente ho preferito i precedenti film di finzione “Io sono Li” e “La prima neve”. Regista attento alla realtà dell’immigrazione e assai informato, Andrea Segre ha girato un film che è quasi un documentario. Anche se pensato già qualche anno fa, attraverso i colloqui con funzionari dell’immigrazione e l’analisi della situazione, Segre  già aveva intuito quale sarebbe stata la realtà che puntualmente si è verificata. L’importanza del film non è tanto legata alla storia del possibile coinvolgimento del funzionario dal punto di vista personale ed emotivo nella vicenda di una donna somala che tenta di entrare clandestinamente in Italia, quanto alla puntuale documentazione delle trame politiche,  dei patteggiamenti, delle collusioni che stanno alla base degli accordi con le autorità libiche per ottenere un arresto o quanto meno un freno delle partenze illegali dalle coste della Libia. Cosa ci sta dietro? Quali compromessi dobbiamo raggiungere? Quali sono i personaggi con cui dobbiamo trattare? Attraverso le vicende di Corrado, funzionario ministeriale ed ex poliziotto esperto che viene inviato a trattare con i libici, veniamo posti a conoscenza dei meccanismi che sottintendono le varie trattative, le beghe intestine, i  tranelli, i ricatti, i possibili fallimenti quando la meta sembra vicina. Ma soprattutto, e questo secondo me è uno dei maggiori pregi del film, tocchiamo con mano le condizioni dei profughi, le violenze e le malversazioni cui sono sottoposti, fino a conoscerne anche le storie personali. E proprio il ricatto emotivo del funzionario che viene coinvolto suo malgrado nella vicenda di una donna somala e che alla fine risolve con grande sofferenza personale è ciò  che  ci coinvolge maggiormente, toccandoci da vicino e stimolando la nostra coscienza critica. Il film, presentato alla recente mostra del cinema di Venezia, viene usato attualmente proprio per stimolare un confronto politico delle idee e per avviare un dibattito  sull’immigrazione, sulla necessità o meno di tornare ad un “ordine delle cose”, sacrificando i più genuini valori umani e di accoglienza. Fino a che punto siamo disposti a rinunciare ai nostri valori per tutelare la nostra tranquillità e il nostro benessere? Un film problematico, importante, uno spunto per una riflessione profonda, ma soprattutto un elemento di conoscenza e approfondimento di una realtà che molti non vogliono vedere.





 
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