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Probabilmente lo sdegno per una situazione sociale sempre più deteriorata e la denuncia di un welfare crudele e inutile hanno fatto sì che l’ottantenne regista smentisse le sue precedenti dichiarazioni e riprendesse in mano la direzione di un film politico da par suo, con nostra grande soddisfazione. Vincitore della Palma d’oro al Festival di Cannes di quest’anno, il film ci racconta la storia di Daniel Blake, essantenne carpentiere di Newcastle, e di Katie, madre single di due bambini piccoli, disoccupata. Daniel ha avuto una crisi cardiaca e i medici gli hanno imposto di sospendere il lavoro; per questo è costretto per la prima volta in vita sua a richiedere l’aiuto dello Stato, che gli consenta di avere un sussidio fino al momento in cui, come lui desidera, potrà riprendere il lavoro. Per questo si reca negli uffici dell’assistenza sociale dove inizia un percorso Kafkiano e inverosimile e dove incontra Katie, una giovane donna single con due figli piccoli, trasferita da Londra, dove abitava in una camera di un ostello per senzatetto, a Newcastle, a 500 chilometri di distanza, come unica soluzione proposta dai servizi sociali. Daniel ha le sue beghe, ma si sente immediatamente spinto dalla solidarietà ad aiutare la povera ragazza sola e disorientata nella nuova città. Le due storie si intrecciano, ma mentre Katie, disperata, pian piano, grazie all’aiuto di Daniel, si risolleva e ripercorre le tappe dall’abisso a una speranza di vita civile, Daniel, orgoglioso, cosciente dei suoi diritti e desideroso di mantenere la propria dignità di cittadino, viene invischiato sempre più nelle spire perverse di una burocrazia assurda e crudele, fino a soccomberne. Ken Loach ci mostra queste aberrazioni con sguardo lucido, critico, a tratti perfino ironico, ma profondamente pessimistico sulle contraddizioni del welfare britannico, per tanto tempo esempio nel mondo di servizi sociali efficienti. Tutti sembrano gentili, comprensivi, disponibili, ma le regole sono immodificabili e le conseguenze terribili. Si soffre con il bravo Daniel, ci si commuove molto per il suo destino, ma, nonostante che la solidarietà operaia, il calore umano, la coscienza civile ci vengano indicati dal regista come necessarie vie d’uscita da una situazione economica e sociale deteriorata, domina su tutto una visione pessimistica che ci lascia ben poche speranze sull’evoluzione dell’attuale società. Un film asciutto, coerente, ben fatto, ben recitato, senza fronzoli, ma che riesce a toccare a fondo lo spettatore e a coinvolgerlo appieno sia dal punto di vista razionale che emotivo.
Ormai al secondo lungometraggio dopo “La mafia uccide solo d’estate”, si incomincia ad individuare uno stile nei films di Pierfrancesco Diliberto. Presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma 2016, “In guerra per amore” replica il successo del primo film, presentando con stile leggero e fiabesco un problema che a Pif sta molto a cuore: la Sicilia e la Mafia. Attraverso le vicende personali di Arturo Giammarresi, palermitano immigrato a New York, e la sua storia d’amore con Flora, promessa al nipote di un boss mafioso, si ripercorrono le vicende dello sbarco degli americani in Sicilia nel 1943 e delle ormai dimostrate collusioni con noti mafiosi, associati alla causa e “sdoganati” ufficialmente, in cambio dei loro servigi. Arturo vorrebbe sposare Flora che è assolutamente consenziente, ma è stata promessa dallo zio al figlio del braccio destro di Lucky Luciano. L’unico modo per opporsi alla volontà dello zio e bloccare le nozze non volute, sembra essere quello di ottenere il consenso del padre di Flora, un povero contadino siciliano moribondo. Per farlo, all’ingenuo e spiantato Arturo non resta che arruolarsi nell’esercito americano e giungere in Sicilia con i liberatori. Le vicende che seguono passano più volte dal divertimento al dramma, dal macchiettismo alla denuncia e spesso hanno un carattere del tutto surreale, come l’episodio del volo dell’asino, ma Pif non perde d’occhio, nel raccontarci le piccole storie personali dei vari personaggi, la storia più grande della nascita della Democrazia Cristiana in Sicilia, del passaggio dei mafiosi alla politica, grazie all’aiuto americano, e, alla fine, della denuncia, attraverso documenti rimasti segreti per molti anni ed ora rivelati, di quanto sia stato importante l’intervento americano per riportare saldamente al potere la mafia in Sicilia. Attraverso la citazione dei nomi di personaggi a tutti noti, si evidenziano le collusioni con la mafia americana e in particolare con Lucky Luciano, disponibile ad aiutare con le sue conoscenze lo sbarco e l’accoglienza delle truppe americane in Sicilia, e per questo assai beneficiato in patria da privilegi e sconti di pena. Il finale è amaro, anche se la storia d’amore riuscirà a compiersi (…forse…), ma il film serve a Pif per illustrare un’altra pagina della storia della sua Sicilia e favorirne la comprensione. Girato ad Erice e alle saline di Trapani con addirittura un omaggio ad una celebre foto di guerra di Robert Capa, probabilmente il film è meno riuscito del precedente che rappresentò alla sua uscita una sorpresa originale, ma il regista merita comunque di essere seguito con attenzione e benevolenza, in attesa delle prossime prove.
Strano regista e strano film. François Ozon passa indifferentemente dal genere noir (8donne e ½), al film di fantasia (Ricky), alla commedia (Potiche), al film di denuncia (Giovane e bella), a quest’ultimo melodramma, presentato in concorso al festival di Venezia di quest’anno.