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La faccia triste dell'America

A cura di Mario Villa Accettazione P.O. Rho
La faccia triste dell’America
Parole di una vecchia canzone di Enzo Jannacci. La faccia triste dell’America era il Messico. Certo, a tutti piace il Messico di Cancun, agli amanti del mare e anche a quelli che non sono tipi da ombrellone. E Palenque, con le sue rovine maestose immerse nella foresta tropicale, affascina tutti. Per non parlare dei palazzi stupendi di Uxmal e della piramide e del “campo“ della pelota di Chichen Itza. Gli occhi poi si deliziano dei colori pastello dei centri coloniali di Puebla, Oaxaca, San Cristobal de las Casas, Campeche e Merida e dei palazzi e delle azulejas di Ciudad de Mexico.
Bisogna sapere andare oltre quello che vedono gli occhi da catalogo turistico. Si deve guardare fuori dai finestrini del minibus per vedere i barboni che escono dai loro sacchi a pelo sui marciapiedi delle strade del centro di Mexico City e raccolgono le loro povere cose, lontano dalle piazze e dalle avenidas. E prima di arrivare al Museo Antropologico, scrigno di meravigliosi tesori, ecco i loro fratelli accampati nel parco, che si preparano da mangiare sopra i fuochi di cucine improvvisate, quasi stabili. Il giorno dopo, uscendo dalla città, ecco i quartieri dei “paracadutisti” come li chiamano qui, contadini urbanizzati che col tempo hanno trasformato le loro baracche di legno, cartone e lamiere, in casette di cemento, oggi abbellite dagli azzurri, i rosa, i gialli, i verdi e i viola. Belli da fotografare, ormai dotati di acqua potabile ed elettricità. Il giorno prima, davanti a quello che è probabilmente il locale più bello della città, ci accolgono i suonatori di organetto, memoria di un tempo ormai scomparso da noi, ex militari e poliziotti pagati dal governo per tenere viva questo intrattenimento, che consente loro, insieme alle mance dei turisti, una vita più dignitosa di quanto non permetta la loro scarsa pensione. Mi ricordano le donne anziane, cosi’ simili alle nostre nonne, mamme e suocere, che svolgono il compito di custodi nei musei di Mosca e Leningrado - scusate, un lapsus, San Pietroburgo - con il medesimo scopo: poter mangiare tutto il mese e riuscire a pagare le bollette.
E Max, la guida, 60 anni, che ti parla degli “indios” – discendenti di aztechi, zapotechi, mixtechi, totltechi, olmechi, maya delle diverese tribù – assunti, si fa per dire, negli hotel con uno stipendio di 0 pesos – sì, avete letto bene, zero. Vivono del vitto loro fornito e delle mance dei ricchi turisti, dei quali io faccio indegnamente parte. La loro situazione è leggermente migliorata nel Chiapas, dopo la rivolta iniziata nel 1994 da quel misterioso personaggio che era ed è il subcomandante Masrcos, la cui identità rimane avvolta nel mistero, come un tempo Palenque lo era dalla jungla. Oggi, quando arrivano nelle città dai loro villaggi, nessuno più gli sequestra le galline o li obbliga a venderle per quattro miseri pesos invece del loro valore reale. I più fortunati vivono in comunità che coltivano la terra, di proprietà del villaggio, secondo una formula di solidarietà sociale che prevede una ridistribuzione del raccolto e degli utili secondo le necessità delle varie famiglie. Molti però sono costretti a recarsi in città – e quando parlo di città intendo San Cristobal – a vendere paccottiglia ai turisti lungo le strade del e i marciapiedi del centro. Donne che vestono gonne di lana tinta di nero e camicette multicolori; bambini che ti offrono frutta secca e quelle che per loro sono leccornie e per te un attentato all’intestino: a mano a mano che passano le ore i bambini sembrano diventare sempre più sporchi. E per strada, in tutte le città, ci sono i lustrascarpe, attività che da noi è scomparsa da decenni. Il tutto in scenari affascinanti o davanti a portali di cattedrali barocche.
Ed ecco che prima di un casello veniamo bloccati dalla protesta degli insegnanti che si oppongono alle riforme anti corruzione del presidente – almeno così ci raccontano. Insegnanti che a San Cristobal, due sere dopo, si scontreranno con la polizia, dando fuoco al palazzo comunale. Me lo riferisce il ragazzo, del quale ho dimenticato il nome, che gestisce il ristorante italiano “Il piccolo”, venuto quindici anni fa da San Gimignano con i genitori a vivere qui. Che mi conferma che sì, i botti sentiti dopo il temporale, erano i lacrimogeni sparati dalla polizia, che ha arrestato almeno trenta persone, chiaramente usando senza risparmiarsi i loro neri manganelli.
Perché anche questo è il Messico di oggi, dove, ci dice Max, il clima sta cambiando più che nel resto del pianeta e le stagioni non sono più ben delineate come un tempo: del resto oggi a Milano ci sono 10-15 gradi ed è il primo maggio. E anche le nostre strade sono sempre più abitate da barboni, che dormono negli androni dei palazzi, nelle stazioni della metro, nelle gallerie, davanti all’Elfo Puccini e in qualunque altro posto che dia loro un minimo di riparo dal freddo delle notti milanesi. Parlo di Milano perché questa conosco, non che nelle altre città italiane la situazione sia molto diversa. Molte sono le somiglianze tra Italia e Messico, a cominciare dalla corruzione dilagante, in culture neolatine nelle quali la mazzetta sembra essere diventata la norma. Per proseguire con gli accordi economici stipulati con gli USA: là il NAFTA, ACCORDO NORDAMERICANO DI LIBERO SCAMBIO, una tragedia per l’economia messicana, stipulato nel 1994 (che strano, lo stesso anno dell’inizio della rivolta dei discendenti delle antiche popolazioni messicane!), qui tra poco il TTIP, il trattato di liberalizzazione commerciale USA-UE, la nostra prossima tragedia economica. E i contadini? Quanto vengono loro pagati i prodotti del loro lavoro, poi rivenduti a 20 volte tanto nei negozi e nei supermercati? Se in Messico le persone scappano in città, senza prospettive, qui chi potrà svolgere un lavoro qualificato fuggirà all’estero, mentre i non specializzati, come me, resteranno a vivere qui, in qualche modo, grazie ad un lavoro che per oggi è sicuro.
A Cancun la zona degli hotel è costruita sulla penisola, lontano dal centro abitato: chissà se è davvero perché i turisti non diano fastidio agli abitanti o se è perché i turisti vivano il loro sogno di paradiso tropicale senza vedere la realtà.
Messico e nuvole, la faccia triste dell’America: forse anche noi lo siamo un po’ e l’imperialismo americano, del quale nessuno parla più, sta cambiando il tessuto sociale, economico e politico delle nostre vite più di quello che crediamo e riusciamo o vogliamo vedere. Quando il processo sarà compiuto sarà troppo tardi e non ci resterà che la rivolta, magari grazie ad un subcomandante nostrano.
Speriamo solo che riusciremo a riappropriarci delle nostre esistenze e delle città, così come gli “indios” di San Juan de Chomula si sono riappropriati della chiesa cittadina, nella quale non ci sono più l’altare né il tabernacolo, ma statue di santi rivestite di mantelli e con al collo specchi, davanti alle quali i locali, seduti su un tappeto di aghi di pino sparsi sul pavimento, praticano riti sincretici, accendendo uno stuolo di candele, e le confraternite pregano san Giovanni Maggiore vestiti di pelli di pecora in lingue a noi sconosciute. Sulla facciata sono scolpiti simboli maya e per le strade e sulla piazza si ergono le “croci vestite”, che recano rami di piante, ufficialmente simbolo trinitario, in realtà ceiba, albero della vita dei Maya. Perché un tempo dovevano occultarsi. E noi?
Hasta luego, compañeros.

 
 
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