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Cinema

A cura di ALBERT FABRIZIO
 IL CASO SPOTLIGHT
USA 2015 Regia: Tom Mc Carthy Sceneggiatura: Tom Mc Carthy, Joseph Singer Fotografia: Masanobu Takayanagi Musica: Howard Shore Interpreti: Mark Ruffalo, Michael Keaton, Rachel Mc Adams, Liev Schreiber, John Slattery, Stanley Tucci, Billy Crudup, Len Carion, Jamery Sheridan
Il film, vincitore del premio Oscar e del Golden Globe di quest’anno, pluripremiato ovunque, era stato presentato in anteprima fuori concorso alla mostra del cinema di Venezia e a Toronto l’anno scorso. Racconta la storia vera di come la squadra giornalistica del quotidiano The Boston Globe che si occupava dei casi alla ribalta (“spotlight”) nel 2001 abbia iniziato ad indagare su di un caso di pedofilia avvenuto in una parrocchia di Boston, scoperchiando una drammatica realtà che ha riguardato migliaia di vittime e che tuttora è fonte di indagini. L’intuito del nuovo direttore, arrivato al Boston Globe nel 2001, e il desiderio di riportare il giornale in prima linea per le inchieste, porta il team di giornalisti ad investigare su di un sacerdote che aveva molestato per anni dei ragazzini, senza che apparentemente fosse stato preso contro di lui alcun provvedimento. Il sospetto era che il caso non fosse l’unico e soprattutto che i vari livelli della Chiesa cattolica, fino all’Arcivescovo Bernard Francis Law, fossero pienamente informati e non avessero fatto nulla, con la scusa di “salvare la fede”, anche a costo di insabbiare tutto. Naturalmente l’inchiesta si fa sempre più vasta e appassionante, gli ostacoli sono molteplici ai vari livelli, ma l’impegno dei giornalisti, la loro capacità di fare squadra e di indagare a fondo senza fermarsi di fronte a nessuno, porterà a rivelare l’entità dello scandalo e darà il via alle indagini in tutto il mondo. Sembra che solo negli USA, 6.427 sacerdoti siano stati accusati di abusi sessuali sui minori, con 17.259 vittime. Il giornale ha vinto il premio Pulitzer nel 2003 per la migliore inchiesta giornalistica. L’interesse del film sta anche, a mio modo di vedere, nel rivelare le numerose zone oscure e le contraddizioni che emergono pian piano, dimostrando come la portata dell’argomento, i tabù, i condizionamenti, abbiano potuto per anni nascondere i fatti, sminuirne la portata, creare grossi problemi di coscienza. Gli stessi giornalisti avevano avuto in mano qualche notizia anni prima, ma avevano evitato di far scoppiare il caso. E anche le vittime, per paura, per vergogna, subendo a volte terribili ricatti, avevano talvolta preferito tacere. Alla fine l’inchiesta diventerà quella bomba che tutti conosciamo e l’Arcivescovo perfettamente informato che aveva tentato in vario modo di mettere a tacere la cosa e di ostacolare l’inchiesta, verrà trasferito: ora è a Santa Maria Maggiore a Roma e speriamo si occupi di altro… Sicuramente il clima è cambiato e dopo le rivelazioni che ci hanno portato a conoscere una realtà drammatica, diffusa in tutto il mondo e tuttora perdurante, sono iniziate anche le punizioni e i provvedimenti di allontanamento da parte della Chiesa. Bisogna dire, tuttavia, che quello che emerge maggiormente nel film non è tanto l’argomento della pedofilia, quanto il ruolo della “libera” stampa, la sua potenzialità, la sua capacità di indagine, di approfondimento, la tenacia e l’abilità dei giornalisti capaci di arrivare fino in fondo, resistendo a mille ostacoli. Un film ben fatto, con un ottimo cast di attori, ma alla fine resta sempre, a mio giudizio, la sgradevole sensazione di autocompiacimento di tanti films americani. Per la cronaca, il film in USA è vietato ai minori di 17 anni, se non accompagnati…l’argomento è tabù e la morale conta!



FUOCOAMMARE
Italia, Francia 2016 Regia: Gianfranco Rosi Sceneggiatura: Gianfranco Rosi Fotografia: Gianfranco Rosi Musiche: Stefano Grosso Interpreti: Samuele Pucillo, Mattias Cucina, Samuele Carnana, Pietro Bartolo, Giuseppe Fragapane
Gianfranco Rosi, noto documentarista, è salito alla ribalta sorprendentemente nel 2013 per avere vinto il Leone d’oro alla Mostra del Cinema di Venezia con un documentario, “Il Sacro Gra”, in cui si raccontavano tante piccole storie, colte con occhio curioso e indagatore, che si svolgevano intorno al raccordo anulare di Roma. A mio parere, aldilà dell’attenzione per un mondo che vive ai margini della grande città, l’osservazione sembrava curiosa, ma le storie mancavano un po’ di significatività e non raggiungevano un particolare valore narrativo, lasciando il giudizio in sospeso. Ben altro significato raggiunge invece Fuocoammare, vincitore dell’Orso d’oro al festival di
Berlino di quest’anno, con grande commozione dei giurati, colpiti dalla potenza delle immagini e dall’umanità del film/documentario. Il titolo deriva da una vecchia canzone che il Dj di “Canzonissima”, una trasmissione musicale da Lampedusa, fa ascoltare ogni giorno su Radio Delta e si riferisce ai bombardamenti del ’43, quando la nave italiana “Maddalena” fu bombardata e prese fuoco nel porto. E’ diventata popolare, un simbolo della tradizione, e viene ancora suonata dai lampedusani, anche se se ne sono perse le parole. Rosi si è calato totalmente nella realtà di Lampedusa per un anno, documentando da una parte la terribile vicenda dei profughi in continuo arrivo, il lavoro quotidiano di intercettazione dei barconi, i campi di accoglienza, la loro vita, i tentativi di fuga, ma anche i drammatici decessi, il ritrovamento dei cadaveri, il riconoscimento dei corpi . Dall’altra, la vita quotidiana degli abitanti, parallela all’altra storia, ma non necessariamente intersecata e coinvolta. Per farlo, ci racconta da vicino la piccola storia di Samuele, un ragazzino di 12 anni che vive la sua vita normale, mangia con la famiglia, va a trovare la nonna, va a scuola, fa i compiti, gioca, scopre l’isola nei suoi misteri notturni, costruisce fionde e cerca i nidi degli uccelli con il suo amico; va anche in barca, ma si sente male come un abitante di terra, non abituato a navigare. Il punto di contatto tra i due mondi è il medico di Lampedusa, il Dottor Bartolo, da cui Samuele si fa visitare per qualche minimo disturbo, ma che è invece coinvolto come dirigente del poliambulatorio, sia nel seguire la salute degli isolani, sia nell’attività di diagnosi e cura per i profughi. La conoscenza di questo personaggio straordinario che svolge il suo lavoro quotidianamente con semplicità e profonda umanità è veramente toccante. Ormai da tempo si occupa della salute degli stranieri fino dall’arrivo, toccando tutte le necessità, dall’accoglienza alle gravidanze ( bellissima la scena in cui spiega l’ecografia alla paziente straniera con parole semplici), fino alla constatazione dei decessi, purtroppo assai frequenti, senza mai perdere il valore umano di quegli incontri così drammatici. La bellezza e la significatività del film, secondo me, sta proprio nel riuscire a mostrare le cose come stanno, anche le più terribili, con le loro contraddizioni, sempre sottotono, senza particolare enfasi narrativa, senza frasi sdegnate o gridate, ma assumendo, proprio per questo, un valore più sincero, più profondo, più politico, di testimonianza e di denuncia. Le uniche riprese veramente drammatiche sono quelle del ritrovamento dei cadaveri nel barcone, volutamente filmati in maniera assolutamente documentaristica, perché stimolassero la coscienza e la reazione di un pubblico spesso assente ed estraneo. Il dottor Bartolo è stato invitato dal regista a ritirare il premio a Berlino e ha saputo dire parole significative sul suo lavoro quotidiano e sull’accoglienza degli stranieri, stimolando l’interesse e la commozione degli astanti (…per poi ritornare in fretta a Lampedusa dove c’era molto lavoro da fare…). Un giorno bisognerà ricordarsi anche di lui per il “Giardino dei Giusti” !

LE CONFESSIONI
Italia, Francia 2016 Regia: Roberto Andò Sceneggiatura: Roberto Andò Fotografia: Maurizio Calvesi Interpreti: Toni Servillo, Connie Nielsen, Pierfrancesco Favino, Daniel Auteuil, Lambert Wilson, Richard Sammel, Marie Josée Croze, Moritz Bliebtreu, Togo Igawa, Johan Heldenberg, Andy de la Tour, John Keogh, Aleksei Guskov.
La scena è un algido albergo tedesco in riva al mare dove si riuniscono otto ministri delle finanze, convocati dal presidente del Fondo Monetario per prendere insieme una decisione strategica di economia il cui esito potrebbe essere tragicamente condizionante per la popolazione di un paese. Nulla di particolarmente originale ai giorni nostri, se non fosse che al summit, forse in un tentativo di umanizzazione, vengono invitati tre personaggi del tutto estranei al tema; un monaco certosino, Roberto Salus, interpretato in modo mirabile da Toni Servillo, una scrittrice di libri per bambini ( richiamo a Gena Rowlands?), una rock star ( Bono Vox?). Il film si svolge come un giallo e nel contempo come un film introspettivo e di coscienza. Motivo della chiamata del frate sembra essere la volontà del presidente del Fondo Monetario (Daniel Auteuil) di confessarsi e per questo il frate viene convocato la sera nella sua camera e ci resterà fino a notte fonda.. La mattina dopo verrà trovato cadavere: omicidio? suicidio? Il colpevole potrà essere il frate, l’ultimo ad averlo visto? Mentre le indagini si svolgono nel segreto del palazzo e soprattutto nel silenzio stampa, per non creare traumi nel mondo dell’economia, cominciano a comparire dubbi, riflessioni, ripensamenti nei vari personaggi, prima assai decisi ad imporre le loro volontà al mondo inerme. Si svelano intrallazzi, tentativi vari di scoprire le possibili confessioni del presidente…I ministri cercano di persuadere il frate a dire quello che sa, quello che è successo, senza riuscirci in nessun modo; Servillo è maestro nel silenzio impenetrabile. Lo studio dei vari personaggi, l’affiorare del dubbio alla loro coscienza, la necessità di prendere una decisione rispetto al futuro senza più la guida del “capo”, il confronto con i personaggi “esterni”, portatori di un’altra etica e un’altra umanità: tutto questo interessa a Roberto Andò che svolge il film in un’atmosfera sospesa, irreale, quasi metafisica. Il richiamo evidente è al vecchio film di Elio Petri, “Todo modo”, dall’omonimo libro di Sciascia, in cui si descriveva un raduno di notabili democristiani in un convento, con un’atmosfera assai simile, ma assai più intrigante. L’insieme mi è sembrato un po’ pretestuoso, a partire dal contesto politico-economico a tutti noto, come spunto di riflessione. Altrettanto strana e irreale la presenza dei tre personaggi ospiti, in particolare il frate, a fare da contraltare a questo mondo disumanizzato. Alla fine i vari ministri dubbiosi saranno costretti a prendere l’unica decisione possibile…una “non decisione”. Un film ben fatto, ben recitato in particolare dal nostro Servillo, ormai calato perfettamente nel ruolo del personaggio solitario, silenzioso e meditabondo, ma, secondo me, non del tutto convincente e non all’altezza del precedente più politico e partecipato “Viva la libertà”. Con tanto di finale “francescano”, un po’ ingenuo, del cane rabbioso che viene ammansito dal frate e se ne va con lui…


SOLE ALTO
Croazia, Serbia, Slovenia 2015 Regia: Dalibor Matanic Sceneggiatura: Dalibor Matanic Musiche: Alen Sinkanz, Neuad Sinkanz Fotografia: Marko Brdar Interpreti: Tihana Lazovic, Goran Markovic, Nives Ivankovic, Mira Banjac, Slavko Sobin
Non lasciatevi ingannare dal titolo ottimista o dalla coproduzione tra Serbia, Croazia, Slovenia: è solo una speranza per il futuro! Per chi da piccolo andava in campeggio in Jugoslavia o andava a mangiare il pesce e a fare le vacanze al mare in Croazia, lo scoppio della terribile guerra fratricida in Jugoslavia nel 1991 è stato un trauma terribile. La inaudita violenza in Europa, in un posto a noi così vicino, ha lasciato ferite aperte che ancora oggi, per chi frequenta quei luoghi e li conosce un po’, non sono affatto rimarginate. Sole alto è un film drammatico e bellissimo, che ripercorre la storia dell’ex Jugoslavia in tre diversi momenti: nel 1991, subito prima della guerra, nel 2001, in piena ricostruzione, e nel 2011, ai giorni nostri. Lo fa attraverso gli occhi di due innamorati, lei serba, lui croato, che vivono la loro storia personale, condizionata dalla più grande storia del loro paese, nei tre diversi periodi. Il regista, il croato Dalibor Matanic, ha usato l’espediente di utilizzare gli stessi attori, cosa che confonde un po’, per raccontarci tre storie diverse, ugualmente intense e significative, nei tre diversi momenti. Raramente, tra i film che hanno raccontato il dramma della Jugoslavia, ho colto la capacità di analizzare la realtà in maniera così profonda e universale, partendo da storie in fondo minime e personali. Una fondamentale identità di personaggi e unità di luoghi ( un piccolo villaggio agreste, le rive di un lago ) ci fanno cogliere benissimo le rivalità famigliari e l’odio interetnico tra serbi e croati, i diversi pregiudizi, il diverso sentire, i diversi riti e tradizioni che portano a terribile violenza psicologica prima ancora che fisica. Tre storie recitate benissimo, con un misto di sfacciataggine e pudore, di grida e di silenzi, storie di sentimenti feriti, nel contempo storie personali e storie di un paese lacerato…Il regista alla fine vuole darci un po’ di speranza nel futuro (…le persone sono individui con i loro sentimenti anche aldilà dell’appartenenza etnica…), ma l’insorgere di nuovi muri e di nuovi nazionalismi egoistici non promettono purtroppo nulla di buono..



FIORE DEL DESERTO
Gran Bretagna, Germania, Australia, Francia 2009 Regia: Sherry Hormann Sceneggiatura: Sherry Hormann Fotografia: Ken Kelsch Musiche: Martin Todsharow Interpreti: Liya Kebede, Sally Hawkins, Timothy Spall, Craig Parkinson, Heera Syal, Antony Mackie
Mentre stavo per mandare al giornalino le mie critiche, ho visto un film di cui voglio assolutamente fare menzione, forse più per il messaggio che contiene che per il film stesso, un po’ alla Pretty woman, in alcune parti intenso e drammatico, in altre divertente e a lieto fine. Si tratta di “Fiore del deserto”, film girato nel 2009 ma solo ora giunto da noi grazie ad una piccola casa di distribuzione indipendente di Verona, la Ahora, di non facile reperimento, ma che vale la pena di rintracciare. E’ la storia vera di una modella somala di nome Waris Dirie ( fiore del deserto in somalo ), delle sue traversie dalla natia Somalia ai fasti delle copertine internazionali. La storia della sua fuga dapprima a Mogadiscio dalla nonna e di li in Inghilterra, a Londra, della sua povertà estrema, della sua amicizia con una simpatica ragazza londinese aspirante ballerina, la sua scoperta da parte di un fotografo folgorato dalla sua inaudita bellezza e infine dei suoi successi internazionali, si intreccia con il racconto drammatico della pratica dell’infibulazione cui la bambina è stata sottoposta nel deserto a tre anni, della sua fuga a 13 anni per evitare il matrimonio con un uomo molto più vecchio, già al quarto matrimonio, a cui era stata promessa dai suoi, secondo le usanze della tribù. Solo la sua bellezza, la sua tenacia e la sua fortuna le hanno consentito di emergere e diventare famosa, ma ha saputo utilizzare la sua notorietà per diventare ambasciatrice delle Nazioni Unite dal 1997 al 2003, designata da Kofi Annan, contro la pratica dell’infibulazione, ancora oggi diffusamente eseguita e di cui sono vittime qualcosa come 6000 bambine al giorno (sic!). L’attrice che recita la parte di Waris è una splendida modella etiope, Liya Kebede, al suo debutto cinematografico, assolutamente perfetta per il suo ruolo. La sceneggiatura è stata scritta dalla regista americana di origine tedesca a partire dall’autobiografia della modella. Il film alterna scene di uno squallore disperante ad altre comiche e melodrammatiche, cui dà il suo contributo Sally Hawkins, la mancata ballerina londinese, fragile e totalmente “incasinata”, che aiuterà la povera somala nei momenti peggiori e diventerà la sua migliore amica e confidente. Film importante, come si diceva, più per il messaggio che contiene che per la regia e la sceneggiatura, ma soprattutto per la incredibile storia di questa modella che ha saputo ribellarsi a queste diffusissime pratiche tribali, praticate indifferentemente da animisti, musulmani e cristiani, e non solo in Africa, e diventare testimone militante ed esempio per tante donne. Dal 2003, il 6 febbraio si celebra la giornata mondiale contro l’infibulazione.

 
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