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I 2 Portaocchiali

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I due Portaocchiali - a cura di Mario Villa Accettazione P.O di Rho

Si tolse gli occhiali e aprì la custodia che teneva sul comodino. Dalla parte alta cadde la fodera interna, che evidentemente si era scollata dal guscio esterno. E’ vero che niente dura in eterno, ma che la custodia si fosse già rotta dopo un anno dall’acquisto degli occhiali voleva dire che era proprio di qualità bassa. E poi cosa aveva fatto per romperla? Niente. La custodia era sempre stata sul comodino di casa o dell’albergo dove l’anno prima era stato al mare con la moglie e sulla mensola della casa di montagna. “Bah, meglio dormire, tanto è solo una custodia per gli occhiali”, pensò. Si infilò sotto il piumino e pochi secondi dopo aver appoggiato la testa al cuscino era sprofondato in un sonno pesante e tranquillo.
Aprì gli occhi al suono del bip bip della sveglia. Si alzò e vide filtrare un bel sole dalle persiane chiuse. “Mi sa che dovrò mettere gli occhiali da sole stamattina” pensò, mentre si radeva e la luce diventava più forte. Del resto a giugno era normale che il sole fosse così luminoso e brillante, anche se la settimana appena passata era sembrato di essere a novembre più che in estate.
Scese nel box e prima di avviare il motore chiese a sua moglie di passargli gli occhiali da sole.
Arrivato al lavoro, aprì il cassetto portaoggetti per recuperare gli occhiali da vista e aprendo la custodia notò che era perfettamente sana anche all’interno. Chiuse l’auto con il telecomando quasi senza accorgersene, dato che stava pensando alla stranezza di questo fatto. Possedeva quegli occhiali da sole da quasi quindici anni e la custodia era ancora come nuova. Eppure aveva viaggiato con lui in posti insoliti: Tunisia del Sud, oasi egiziane, Yemen, profondo sud del Marocco, deserto algerino, Mali, Ciad, deserto del Sudan e molti altri ancora. Era stata per giorni dentro il marsupio, appoggiato sopra i bagagli nelle tende, aperto e chiuso per entrare uscire da moschee, templi, musei, case, grotte…  Eppure la custodia era integra. Certo, portava i segni delle scomodità che aveva dovuto affrontare, era come ferita, all’esterno, rigata dai granelli di sabbia con i quali il ghibli e l’harmattan l’avevano sferzata mentre lui la indossava. Ma dentro era perfetta come il primo giorno, non si scollava, anche se si vedevano i segni dell’età e dell’uso.
Che strano. La custodia che era stata tenuta nella bambagia e coccolata era già rotta dentro, mentre quella che era stata sbatacchiata di qua e di là dentro era perfetta. Eppure si sarebbe aspettato il contrario. Era un fatto che gli dava da pensare. E molto.
Non riuscì a lavorare molto quella mattina in ufficio. Continuava a pensare ai suoi due portaocchiali. Gli ricordavano qualcosa, forse qualcuno. Sì, qualcuno. Ma chi?
Quasi sentiva il cervello lavorare, come se davvero ci fossero delle rotelle, meccanismi dentati che si incastrano uno nell’altro e lavorando si scaldavano. Le sue tempie bollivano, sentiva odore di bruciato. Se non fosse riuscito a ricordare alla svelta chi o cosa gli ricordavano i due portaocchiali avrebbe fuso, letteralmente.
John e Jim, certo.
John, il figlio di sua sorella Mary, il più giovane. Suo cognato, il padre di John, era un uomo d’affari di successo, con un patrimonio tale che forse lui stesso ne ignorava ormai la consistenza reale. John, dalla casa stracolma di giocattoli fin da quando era piccolissimo. John, che ricordava mentre girava, come un pirata della strada, sulla sua minimoto nel parco della sua villa, rincorso dalla bambinaia, con la quale era cresciuto, perché il padre lavorava dalle dieci alla quindici ore al giorno e sua madre non aveva tempo per lui, presa com’era dallo shopping, dai centri estetici, dai tè con le amiche, dalle sfilate di moda, dai vernissage, dagli aperitivi e dalle cene di rappresentanza. John, dotato dei telefoni cellulari ultimo modello sempre, cambiati con un ritmo impressionante. Aveva provato a cambiarne sei in due mesi. E i pc? Ipertecnologici, vecchi dopo due mesi. E poi tablet, moto, auto, vestiti firmati, scarpe… E via così, fino ai vent’anni. Poi cominciarono le stranezze, sembrava assente, parlava di cinema mentre gli altri discutevano di politica, se ne andava da tavola a metà della cena, si presentava mezzo nudo in salotto mentre c’erano degli ospiti importanti e così via. Poi collassò, fisicamente. Stramazzò sul pavimento nel bel mezzo di un party organizzato da suo padre. Portato in ospedale fu ricoverato in neurologia e la diagnosi fu tremenda: la TAC 3D mostrava buchi nell’encefalo, 9 buchi, e degenerazione globale della corteccia cerebrale e della materia grigia. La causa? Metamfetamine e crack dei più svariati tipi. Aspettativa di vita? Non più di un anno, al massimo, morte più probabile entro 6 mesi.
John scattò in piedi, strappandosi le flebo e urlando come un ossesso: “Io non posso morire, voi dovete salvarmi, siete obbligati a non farmi morire”. Poi un infermiere gli infilzò una siringa nel collo e dopo pochi secondi John svenne in pochi secondi. Il calmante avrebbe steso un purosangue di due anni. I medici si erano sbagliati: John sopravvisse altri quindici anni, uno zombie, sempre più un morto vivente con il passare dei giorni, fino alla paralisi totale e alla morte. John aveva avuto tutto dalla vita, senza mai faticare, perché la droga?
I genitori di Jim – figlio di mio cugino Jeremy -  erano semplici impiegati comunali, vivevano in un appartamento normalissimo, in un condominio sovrastante la metropolitana. Jim non aveva mai avuto più di cinque o sei giocattoli, un paio per Natale, uno per il suo compleanno e gli altri comprati con i suoi risparmi.
Quando sfrecciava sulla vecchia bici da cross riparata e riverniciata da suo papà, il viso era raggiante e si sentiva al settimo cielo. Passava ore a calciare il proprio pallone da soccer contro il muro di una palazzina disabitata e raggiungeva la vetta della felicità quando poteva passare tutta la domenica pomeriggio a lanciarsi la palla da baseball con il papà. Aveva sempre avuto un solo telefonino, schermo da 1 pollice, monocromatico, suonerie monofoniche. Un telefonino che poteva solo telefonare. Comprò la sua prima auto quando per lavoro dovette andarsene da New York e nella piccola cittadina dell’Arkansas i mezzi pubblici avevano orari troppo scomodi per lui. Jeremy lo fece aiutare da un suo amico, meccanico della polizia, nella scelta di un’auto usata che non fosse proprio un catorcio ambulante. Una riverniciata e quella vecchia berlina tornò quasi come nuova.
Con i risparmi del primo anno di lavoro si comprò finalmente una reflex  professionale e poté coltivare meglio la sua passione per la fotografia, fino ad allora portata avanti con la Leica di suo padre. E dopo dieci anni pubblicò il suo primo libro di fotografie, splendido, un capolavoro: la critica disse che nessuno meglio di lui sapeva cogliere l’anima delle persone che ritraeva. E i paesaggi poi… mai banali, niente che sembrasse una cartolina vecchio stile. Le inquadrature rivelavano tutta la sua arte. Jim aveva scattato quindicimiladuecento foto per scegliere le cento da mettere nel libro. Cento fotografie per ritrarre gli States.
Ora, quando non era in viaggio per scattare le sue foto o per presenziare alle sue mostre, viveva in una bella villetta in un quartiere residenziale di Boston. Stava per uscire il suo sesto libro – Il volto dell’Africa, questo sarebbe stato il titolo: ventiquattro mesi di lavoro, una malaria, un tentativo di rapirlo, un’alluvione e altre difficoltà. Era però riuscito a scovare quella che per lui era la “vera” Africa, sempre in bilico tra tradizione e modernità, in cerca di un’occidentalizzazione che più africana di così non poteva essere.
Fin da piccolo gli era stato insegnato che la vita è fatica, è conquista. “Se vuoi arrivare sulla vetta della montagna per poter ammirare il paesaggio, devi percorrere il sentiero, arrampicarti sulla roccia, attraversare il ghiacciaio senza cadere nei crepacci. Ti mancherà il fiato, ti faranno male i muscoli, proverai brividi di freddo e il sudore ti scenderà lungo le guance fino a farti assaporare il suo sale mentre sei aggrappato alla corda che ti impedisce di cadere nel baratro sotto la parete che stai scalando. Ma se avrai portato con te quanto ti serve e persevererai sino alla fine senza lasciarti scoraggiare dalle difficoltà, allora potrai gustare un sentimento unico e irripetibile, quando, arrivato sulla vetta, potrai ammirare il sole nel celeste che si stende oltre le nuvole”.
Jim smise di esaminare gli ultimi scatti e rispose con un sorriso di gioia ai versetti del figlioletto Robert che, sorvegliato da Ann, zampettava verso di lui. Spense il pc, allungò le braccia e afferrò  Robert  prima che si schiantasse con il nasino contro la sua scrivania. Lo sollevò e gli stampò un bacio sulla guancia. E Robert disse “Papà” per la prima volta. Jim si sentì al settimo cielo, più in alto della vetta dell’Everest. Il suo sguardo incrociò quello di Ann, che lo raggiunse. Si baciarono e Ann chiese: “Andiamo a dormire”. Jim rispose: “Sì amore”.
Portarono Robert nel suo lettino, accesero il baby phone, scivolarono sotto le coperte e si addormentarono abbracciati. E fu una notte splendida, dopo una fantastica giornata, finché il sole si alzò nel cielo intenso di un ventoso mattino di primavera, per una nuova avventura quotidiana.

 
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